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VERONESE 
 
Paolo Caliari nacque a Verona (da cui il soprannome) nel 1528. Il padre Gabriele era scalpellino e fu lui ad impartire a Paolo i primi insegnamenti artistici. Grazie alla sua formazione nella città natale, il Veronese ebbe modo di conoscere le opere del pittore manierista Giulio Romano (1499 ca. — 1546), di cui tenne sempre in grande considerazione il disegno. Nel 1552 lavorò a Mantova e ammirò i capolavori di questo grande maestro a Palazzo Tè. Secondo le scarse notizie biografiche, il suo apprendistato fu nella bottega di Antonio Badile (1518-60) e poi di Giovanni Caroto (1488-1566), a Verona, dove molto presto l’alta qualità della sua pittura richiamerà la più prestigiosa committenza locale. Tra le prime commissioni importanti ricevute a Verona troviamo la Madonna in trono fra santi e donatori detta la Pala Bevilacqua del 1548, e la splendida tela raffigurante Sant’Antonio Abate tentato dal demonio, del 1552, dove la resa potente delle muscolature e il dinamismo si rifanno alla grande tradizione michelangiolesca rivisitata da Giulio Romano. Intorno al 1551 eseguirà gli affreschi della Villa Soranza a Treville, presso Castelfranco Veneto, insieme a Gianbattista Zelotti (1526-78). Costruita dall’architetto Michele Sanmicheli, la villa è poi andata distrutta, ma dai scarsi resti è ancora possibile cogliere lo spiccato senso della decorazione illusionistica, che fece del Veronese uno dei più grandi decoratori di tutti i tempi.  
La sua attività si svolse però prevalentemente a Venezia, dove giunse nel 1553 chiamato da Giambattista Ponchino, il quale era stato incaricato dalla Serenissima a decorare tre sale del Consiglio dei Dieci nel Palazzo Ducale. 
I dipinti eseguiti in questa occasione costituiscono il suo debutto pubblico nella città lagunare ed ebbero subito un grande plauso sia presso gli organi politici sia presso i pittori, primo fra tutti Tiziano. In queste tele per Palazzo Ducale (Giove scaccia i vizi, Giunone versa doni su Venezia, Gioventù e Vecchiaia, nella sala delle udienze; San Marco che incorona le Virtù, nella sala della Bussola; Trionfo della Virtù sul Male e Trionfo della Nemesi sul Male, nella stanza dei Tre Capi), Veronese dispiega una pittura solare, in cui la base del disegno e della costruzione manierista viene rinvigorita dalla vivacità del colore.  
Il successivo incarico che la Repubblica di Venezia affidò a Veronese, insieme con altri sei pittori fra cui Andrea Schiamone (1518-1563), fu la decorazione della Libreria Vecchia di San Marco, nel 1556-57. La vigorosa e innovativa pittura che Veronese introdusse a Venezia, venne premiata dal Senato veneziano con una Collana d’oro. 
Nel 1575 Veronese fu nuovamente impegnato per il Palazzo ducale. Gli venne affidato l’incarico di decorare il soffitto della Sala di riunione del Collegio con un ciclo di tele dedicate alla glorificazione della città di Venezia. L’opera venne compiuta nel fra il 1575-77 in collaborazione col fratello Benedetto e altri aiuti. I temi erano il Leone marcia tra Marte e Nettuno, la Fede, Venezia dominatrice con la Giustizia e la pace, e intorno a questi ruotavano le otto allegorie delle Virtù, la Semplicità, la Prosperità, la Dialettica, la Moderazione, la Mansuetudine, la Fedeltà, la Vigilanza, la Fortuna
Tra i principali cicli decorativi realizzati dal pittore nelle chiese di Venezia, uno dei più ricchi è quello della chiesa di San Sebastiano. L’opera lo vedrà impegnato per quindici anni a partire dal 1555, e gli fu commissionata dal priore dei Girolomini frà Bernardo Torlioni. 
La maggiore impresa decorativa profana di Veronese è il ciclo di affreschi in Villa Barbaro a Maser, realizzata nel 1561. Questa Villa, opera di Palladio, è il capolavoro assoluto dell’integrazione fra pittura e architettura. Nota dominante del ciclo è lo spiccato illusionismo: le figure dipinte da Veronese si affacciano da balaustre, spuntano da dietro le porte, si avvicendano in ambienti che simulano in tutto quelli reali della villa stessa. I soggetti degli affreschi che ricoprono il corpo centrale della villa sono ispirati alla mitologia, ad allegorie e alla natura stessa. Il programma iconografico forse fu dettato da Daniele Barbaro, proprietario, insieme con il fratello Marcantonio, della villa. Questo splendido capolavoro esercitò un notevole influsso sulla successiva pittura veneziana, in particolare nel Settecento, come dimostrerà l’opera di Giambattista Tiepolo e del figlio Giandomenico. 
La produzione di dipinti mitologici del Veronese mostra la personalità esuberante di questo grande artista. L’interpretazione che egli diede al mito di Venere e Adone, molto amato da Tiziano, indica chiaramente quanto siano diverse le visioni di questi due pittori: drammatica e lirica quella di Tiziano, gioiosa e spensierata quella del Veronese.  
Quella di Paolo Caliari è una pittura brillante, giocata sull’accostamento di una vastissima gamma di colori, che danno una notevole luminosità alle sue immagini. La straordinaria vitalità della sua opera, che rinnovò profondamente il panorama artistico veneziano del secondo Cinquecento, si deve all’eccellente fusione di due diverse tradizioni: quella disegnativa tosco-romana, e quella coloristica, tipica di Venezia. 
La sontuosità dei suoi dipinti rispetta il gusto di una committenza che si vuole circondare di immagini fastose e imponenti, gusto che viene espresso anche dalle architetture di Palladio, che fanno da sfondo agli stessi quadri di Veronese. 
La vicenda artistica e umana di questo pittore comprende un episodio di estremo interesse sia sotto il profilo storico che artistico: il processo nel 1573 da parte dell’Inquisizione per il dipinto Cena in casa di Levi. L’inquisizione contestava a Veronese in un’opera di grande dimensioni raffigurante l’Ultima Cena del 1571, le troppe figure che affollavano la scena e la mancata fedeltà al racconto evangelico. Il processo si concluse con la condanna di Veronese a modificare l’opera a sue spese, cosa che il pittore fece cambiando il titolo originario di Ultima Cena in Cena in casa di Levi. 
Veronese dipinse alcune sfarzose cene e tra le più importanti vi sono: Nozze di Cana del 1562-3, dipinta per il refettorio del convento benedettino di San Giorgio Maggiore a Venezia (in cui vi sono ben 132 figure), e Cena in Emmaus del 1559-60, oggi al Louvre, ma già nota nel XVII secolo perché faceva parte della collezione del cardinale Richelieu. Qui sacro e profano si mescolano in un contesto classico e sontuoso. 
Strettamente legata all’aristocrazia veneziana, ma anche espressione di una grande libertà creativa, l’opera del Veronese costituisce una delle testimonianze più complesse e interessanti della cultura figurativa del Cinquecento italiano. 
Il pittore morirà a Venezia nel 1578.